La Russia e la strada cinese della seta

La One Belt, uno dei forum della “Strada della Seta”, tenutosi a Pechino il 14 e 15 maggio, doveva rappresentare la celebrazione dell’iniziativa cinese dello sviluppo eurasiatico; ma non credo che agli estranei si sia rivelato in questo modo.
Le riserve e le preoccupazioni espresse dagli europei hanno ostacolato l’emissione di un comunicato comune con la Cina, mentre nella settimana precedente, molti articoli occidentali hanno messo in risalto come Pechino, nonostante le sue enormi promesse di investimenti, stesse in realtà offrendo molto poco ai destinatari. Nel frattempo, l’India s’è rifiutata di partecipare. Queste defiances hanno reso molto interessante la presenza del presidente russo, Vladimir Putin.

In generale, le relazioni russo-cinesi sono diventate un incontro analitico con numerosi osservatori, tra i quali gli Stati Uniti, Russia, Europa e Cina che stanno cercando di determinarne la precisione e le dimensioni economiche. Certo che, le dichiarazioni di Putin di questa settimana a Pechino, non aiuteranno certo a dissipare il dilemma.
Putin, nel suo discorso, mentre ha dichiarato che la Russia dovrebbe temere i progressi economici della Cina, e che Pechino “stava trasformando la Russia in una appendice di risorse per la Cina”, ha anche annunciato il suo sostegno “in termini generali alla Belt and Road Initiative (BRI)”, limitandola però all’interno della sua ampia visione dei “grandi progetti di integrazione euroasiatica da Lisbona a Vladivostok”. Il presidente russo ha invocato la tradizionale ambizione russa per i grandi progetti asiatici, anche se, alla fine dei conti, non se ne è completato nemmeno uno. In altre parole, Putin ha cercato, almeno retoricamente, di spostare l’accento sulle priorità russe: i programmi di integrazione eurasiatica e asiatica; i programmi di sviluppo russi per l’Artico, le previsioni energetiche asiatiche e i futures economici.
Sulla questione specifica dei principali progetti d’integrazione euroasiatica, il sostegno di Putin per il BRI cinese è stato “coperto ed equivoco”. A questo proposito, ha riflesso le osservazioni dello studioso Alexander Gabuev, che “le alte aspettative dell’élite russa per Belt and Road hanno avuto un serio controllo della realtà e ora gli oligarchi e i funzionari sono scettici sui risultati pratici”.
Finora, con una vena che ricorda il realismo socialista sovietico, sembra che gli scritti analitici russi sulla Cina e sui temi dell’integrazione eurasiatica, siano stati costretti ad apologie, sia per l’ottimismo, che per la negazione dei problemi. Tipizzando la tendenza verso un ottimismo ufficiale forzato, molti scrittori russi ora sostengono che il BRI sia fondamentalmente diverso dagli sforzi di integrazione dell’ex Unione Sovietica e che questi due progetti siano complementari. L’evidenza però, suggerisce una terza alternativa, cioè che la Cina è totalmente auto-interessata e inesorabilmente subordina gli interessi russi ai propri obiettivi; inoltre, sembra essere guidata da una logica di mercato molto genuina e che rispetta le realtà economiche.

Nel 2014, gli investitori cinesi hanno annunciato l’interesse per un investimento ferroviario ad alta velocità, Mosca-Kazan, che doveva diventare il fondamento di una linea ferroviaria che porta fino a Pechino. Tuttavia, mentre il memorandum di intesa (MOU) prevedeva che la ferrovia dovesse passare attraverso la Siberia, più tardi si è scoperto che la linea invece sarebbe passata da Astana, la capitale del Kazakistan, attraverso Xinjiang, e avrebbe tagliato gran parte della Russia, abbassando i tempi di viaggio di almeno i due terzi. Così, questo esempio è per spiegare un “modello di un progetto tipo della cooperazione russo-cinese”.
Pertanto, nonostante tutta l’affascinante retorica della grandezza senza precedenti del BRI, è chiaro che per la sua nascita ed evoluzione ci sono molti problemi. L’India non ha partecipato al vertice di Pechino, citando preoccupazioni per l’assunzione di un debito eccessivo – e senza dubbio, ci sono anche considerazioni geopolitiche. Gli altri paesi più piccoli, come le repubbliche dell’Asia centrale, non possono permettersi di resistere agli investimenti cinesi; ma senza dubbio condividono le stesse preoccupazioni, in quanto questi investimenti spesso portano un indiscreto conflitto etnico all’interno delle loro comunità e la Cina investe chiaramente molto meno di quanto promette. Anche gli osservatori russi sono riusciti a vedere quest’ultimo problema. Prima del vertice, Kommersant ha pubblicato un articolo che si riferisce ai problemi relativi al finanziamento di questi enormi progetti e al conseguente onere di debiti sui paesi che li accoglieranno.

Allo stesso modo sembra chiaro che un tallone d’Achille delle relazioni bilaterali con la Cina, siano le differenze sulle questioni economiche. È da tempo risaputo che il rapporto energetico è un problema, e che Putin ha grosse difficoltà ad annunciare che il lavoro in Siberia per il trasporto del gas sta andando avanti; e, anche se le fonti russe affermano che il commercio russo-cinese raggiungerà gli 80 miliardi di dollari entro il 2018, è improbabile che possa superare le difficoltà, specialmente perché la Cina ha appena firmato un accordo commerciale con gli Stati Uniti, il cui significato politico è probabilmente maggiore della sua importanza economica.
In ultima analisi è lo stato dell’economia e delle infrastrutture russe, cioè l’incapacità di Putin, che è il nocciolo delle deficienze russe a saper sfruttare la propria posizione in Eurasia, sia per lei stessa, che nei suoi grandi progetti con la Cina. E, nessuno si deve aspettare che Pechino possa intervenire e rettificare un tale fallimento, come nemmeno non ci deve essere nessuno che si deve meravigliare se Pechino lo sfrutta a proprio vantaggio.

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